Mario Messinis - Intervista Ottobre 2005
Mario Messinis è nato a Venezia nel 1932 ed è critico musicale del «Gazzettino di Venezia». Nel 1963 ha iniziato a insegnare Storia della Musica al Conservatorio Benedetto Marcello di Venezia. Ha diretto il settore musica della Biennale di Venezia dal 1979 al 1982 e dal 1992 al 1996. E’ stato direttore artistico delle orchestre della RAI a Torino e a Milano, delle “Orestiadi” di Gibellina e dell’Orchestra Sinfonica Siciliana. Dal 1997 al 2000 è stato sovrintendente del Teatro La Fenice di Venezia.
Quanto incide la personalità di un direttore nell’organizzazione del Festival Internazionale di Musica Contemporanea?
Sicuramente moltissimo. Posso affermare che il più grande direttore della storia del nostro Festival è stato certamente Fernando Ballo, un critico musicale molto importante, che lo diresse dal 1948 al 1951. C’è stata con lui un’apertura su tutti i fronti della musica contemporanea, dalla Scuola di Vienna fino alla prima italiana di Marsia di Dallapiccola (nel 1948) in forma di balletto con la direzione coreografica di Aurél M. Milloss, grande coreografo ungherese. Grazie a lui abbiamo avuto al Festival anche la prima italiana di Mahagonny, opera in un atto di Kurt Weill; la prima, sempre italiana, di Cardillac di Paul Hindemith, opera del suo primo periodo, quindi ancora un po’ tesa, che segna anche l’inizio dell’avvicinamento dell’autore agli Espressionisti. L’apertura di Ballo era multidirezionale, da Schoenberg a Copland. Il primo grande lavoro portato al Festival da questo direttore fu sicuramente la Lulu di Alban Berg, diretta da Sanzogno, in due atti. (Fu in seguito completata del Terzo Atto da Friedrich Chera e debuttò, completa, all’Opéra di Parigi nel 1979 diretta da Pierre Boulez).
Inoltre Ballo istituì l’Autunno Musicale Veneziano, dedicato alla musica antica: era il periodo in cui venivano rispolverati, catalogati e revisionati autori come Monteverdi e Vivaldi.
La direzione di Ballo conta inoltre la più importante prima rappresentazione del secondo dopoguerra: La carriera di un libertino di Stravinskij.
Quali sono invece le caratteristiche del periodo in cui la direzione fu affidata ad Alessandro Piovesan?
Piovesan muta completamente le scelte dei compositori e delle correnti, elimina la Scuola di Vienna e basa quasi tutto sulle prime di Stravinskij – Canticum sacrum ad honorem Sancti Marci nominis, Monumentum pro Gesualdo, ecc – Threni, del 1958, grande composizione sinfonico-corale con 6 solisti, è una delle opere più complesse dell’autore e la dedicò a Piovesan che era morto poco tempo prima. Gli aspetti più importanti della direzione di Piovesan furono: il rapporto con Stravinskij, quello con Malipiero, e due prime importantissime, The turn of the screw di Britten e L’angelo di fuoco di Prokof’ev. Inoltre, egli diede molto spazio alla musica italiana, essendo un po’ ostile alla musica d’avanguardia internazionale, ed insistette molto su Petrassi e Malipiero.
Che cosa ricorda del debutto nel 1961 di Intolleranza 1960 di Luigi Nono?
Nel 1959 la direzione passò nelle mani di Mario Labroca e ci fu così un’ampia apertura alle avanguardie. Intolleranza 1960 fu sicura-mente la produzione più importante; Emilio Vedova realizzò bellissime scene che rispecchiavano l’espressionismo astratto che lo caratterizzava; con lui lavorò alle scene anche Josef Svoboda – utilizzatore della lanterna magica – che però molto presto entrò in polemica con Vedova. Lo scontro divenne tanto serio che in seguito a ciò Svoboda lasciò la manifestazione e il suo nome venne cancellato dal catalogo del Festival.
Nono stette a guardare questo dissidio senza prendere posizione, nonostante la lanterna magica fosse alla base dell’impianto scenografico della sua opera.
Ricordo inoltre che c’era un grande contrasto tra le scene di Svoboda e le pitture di Vedova da un lato, e la regia di Kazlik, assai realistica, dall’altro.
Durante la prima ci furono contrasti spaventosi nel pubblico che si divise tra reazionari e conservatori, i quali fischiavano e disdegna-vano, in molti casi senza neanche ascoltare.
Quanto ha inciso il Festival Internazionale di Musica Contemporanea nella diffusione della musica italiana?
La musica italiana non ricopriva un ruolo di primo piano, perché il Festival era di stampo internazionale; posso affermare, comunque, che il suo svolgersi in una città italiana diede di certo alla nostra nazione il ruolo di importante vetrina musicale.
Se dovesse indicare un momento come il più importante della storia del Festival, quale sceglierebbe?
Ce ne sono diversi ma, volendo indicarne uno che rientri nella mia memoria storica e che ricordo con più trasporto, risponderei La carriera di un libertino di Stravinskij. Possiamo considerarlo come il maggiore avvenimento nella storia del Festival della seconda metà del secolo (11 settembre 1951). Ballo, in quell’occasione, per far fronte alle spese non indifferenti, coinvolse nell’organizzazione anche il Teatro alla Scala, che fornì l’organico. Le trattative con l’autore e con il teatro milanese furono lunghissime, ma anche in quel caso riuscì a spuntarla.
Che cosa ricorda di quella esperienza?
Ricordo che c’era Stravinskij sul podio. L’impostazione scenica era assolutamente tradizionale, ricordava il rococò; credo che questo dipese soprattutto dal fatto che l’autore, attingeva spesso, per quanto riguarda la forma, alla tradizione settecentesca. I costumi, gli oggetti scenici, l’attrezzeria e le scene si rifacevano del tutto al Settecento: sarebbero potuti andar bene anche per una messa in scena della Nozze di Figaro. Comunque, l’autore diresse solo la prima, poi l’opera fu affidata a Ferdinand Leitner, grande direttore tedesco molto aperto alla musica contemporanea.
Quando si ha un vero e proprio cambiamento della musica contemporanea?
Sicuramente dagli anni Cinquanta in poi, con Boulez, Stockausen, Nono e Maderna: erano questi i nomi più importanti. Sulla base della musica dodecafonica, estremizzare la serialità verso i parametri musicali: questo era il pensiero dei compositori dodecafonici. Nono organizzò anche un convegno, peraltro, contro il feticismo dei materiali.
A questi compositori il Festival si aprì solo con l’arrivo di Labroca, nel 1959, prima ne erano stati tenuti lontani, ma si erano guadagnati fama e stima internazionale tramite il Festival di Donaueschingen, nei pressi di Colonia.
Che cosa pensa dello stretto legame che, oramai da molto tempo, unisce il Festival al Teatro La Fenice?
Per molto tempo la Fenice e il Festival sono stati uniti indissolubilmente in un rapporto che vedeva le più importanti prime dell’una fornite dall’altro; poi, dalla morte di Labroca in poi, questo rapporto si allenta. Il Festival cessa la sua cadenza annuale e diventa prevalentemente biennale, anche nel mio periodo.
Lei è stato sovrintendente del Teatro La Fenice dal 1997 al 2000, cosa accadde in quel periodo così triste?
Ci fu un grande sforzo da parte di tutti. Intanto Massimo Cacciari ebbe l’idea di creare il Palafenice, uno spazio dei fratelli Togni che veniva usato per il circo, ma che ha funzionato bene come teatro provvisorio. Poi ci fu il restauro del Malibran, realizzato tuttavia non molto bene per quanto riguarda l’acustica; quindi, cominciò il restauro della Fenice, seguendo lo slogan di Cacciari “dov’era, com’era”. Per me, questa era una direttiva discutibile, ma gli architetti che parteciparono alla gara di appalto non ebbero il coraggio di proporre un radicale rinnovamento del teatro nei loro progetti, perché tutti speravano di ottenere l’appalto della ricostruzione. Di sicuro oggi il teatro vanta un’acustica perfetta. Io mi trovai in una situazione minoritaria: preferendo un teatro moderno, sarei stato più favorevole alla scelta di una sala più grande ed originale.